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"Aveva una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come quando si sta nuotando e si vuole mettere i piedi su qualcosa di solido, ma l’acqua è più profonda di quanto si pensi e non c’è niente là sotto"

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Julia Gregson

Sugli attacchi di panico vige una certa confusione.

Senza entrare troppo nel dettaglio, è importante comprendere il funzionamento dei meccanismi che muovono il corpo, spingendolo a provare un dolore sul quale noi non abbiamo controllo alcuno.

 

Come premessa, possiamo dire che le emozioni vengono sperimentate nel corpo. Esse sono il prodotto di un complesso (anche se a volte troppo semplificato, ma poi lo vedremo) processo di elaborazione degli stimoli esterni o addirittura interni, e, quando questa elaborazione perde la sua efficacia, le conseguenze possono essere disastrose.

 

Un altro punto importante da tenere bene a mente è che l’ansia non è una vera e propria emozione.

E allora cosa è?

E’ una attivazione generalizzata dell’organismo in risposta ad una situazione vissuta come stressante.

Lo stimolo stressante, nella maggior parte dei casi, è un’emozione.

Purtroppo, o per fortuna, però, le emozioni nascono dentro di noi, non all’esterno.

Può capitare che si arrivi ad un punto in cui è come se il nostro corpo cercasse di trattenere qualcosa di irrefrenabile per natura (emozione deriva dal latino movere, muovere, quindi trasportare fuori o muovere verso l’esterno) e, nel farlo, desse fondo a tutte le nostre energie.

Molto spesso, le emozioni trattenute sono la paura, la tristezza oppure la rabbia.


Qui, come avrete notato, la situazione si complica perché è difficile stabilire un protocollo efficace per chiunque. E’ necessario, quindi, stabilire un percorso personalizzato che vada a cogliere le sfumature del problema e non perda di vista i meccanismi sottostanti che variano a seconda della situazione.

 

Nel corso della mia pratica clinica ho individuato due modalità che vengono messe in atto, anche se a volte si presentano contemporaneamente, e che cercherò di proporre in termini semplici pur premettendo che vi saranno delle approssimazioni.

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Prima modalità

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L’attacco di panico è frutto di un vero e proprio trattenimento emotivo.


1) Caso Rabbia

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Genoveffa (nome inventato), minorenne, aveva 16 anni e viveva in casa con suo padre e nella vita ha attraversato momenti molto, molto difficili.

Era per “natura” una persona ansiosa ma, ad un certo punto, ha iniziato ad avere degli attacchi di panico. Essi si manifestavano in seguito alle costanti invasioni del padre nella sua camera. Il suo spazio privato, nel quale poteva trovare conforto e sentirsi protetta, veniva calpestato e riempito di critiche e recriminazioni. Ad un certo punto, ogni volta che queste dinamiche venivano messe in atto, iniziava a mancarle il fiato, a sudare freddo e sentire come un forte senso di vertigine. La prima cosa che rispose al “cosa avresti voluto fare in quel momento?” è stata “avrei voluto spaccargli al testa”.

Molti ragazzi hanno genitori invadenti e immagino che vi starete chiedendo “come mai lei reagiva in quel modo e altri no?”. La risposta è “Ci interessa il giusto saperlo”. Ciò che ci serve è prendere atto che l’emozione della rabbia è stata inibita e il suo trattenimento ha portato ad una crisi. Ovviamente lo scopo non è agire e promuovere la violenza ma permettere alla rabbia di darci le energie necessarie per delineare e difendere in modo assertivo (quindi non aggressivo) i nostri confini.

Il motivo per cui alcune persone reagiscono in un modo piuttosto che in un altro riguarda la propria storia individuale; non tutti partiamo con le stesse risorse e le stesse esperienze, la vita non offre a tutti le medesime opportunità.

2) Caso Tristezza

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Mafalda (nome inventato) aveva un marito, la sua relazione era stata ricca di alti e bassi, ma l’amore per il suo compagno le aveva dato la forza di affrontare le sfide che la relazione le aveva posto sul suo cammino. Tuttavia, ad un certo punto, ha iniziato a svegliarsi nel cuore della notte, a perdere la concertazione sul posto di lavoro, a sentirsi perennemente triste; poco prima di tornare a casa, dopo la giornata lavorativa, veniva colta da violenti attacchi di panico, tanto da indurla a smettere di utilizzare la macchina.

Il tutto ebbe inizio quando un triste giorno scoprì, in modo del tutto casuale, che il suo compagno intratteneva una relazione segreta con un’altra donna.

Spesso il dolore può essere talmente grande che la paura di affrontarlo ci paralizza, incatenandoci ad un destino che sotto sotto non ci appartiene.

Avviene spesso nei lutti: coloro che non sono abituati a piangere e ad esprimere il loro dolore possono soffrire più degli altri nel portarsi dentro un vuoto che, in realtà, contiene tutto l’amore che hanno paura di perdere per sempre.

3) Caso Paura

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Gianmarco (nome inventato) era un ragazzo talentuoso. Aveva avviato una sua attività che per un discreto tempo riscosse molto successo. A causa del covid tutto andò in fumo e fu costretto a dichiarare fallimento.

Pochi giorni dopo aver firmato le ultime carte, Gianmarco iniziò a riflettere sul suo percorso di vita, e una profonda angoscia iniziò ad assalirlo. Viveva nella costante paura di non poter più creare nulla di importante e di non dimostrare il suo valore agli occhi delle persone che aveva intorno.

Una pericolosa spirale di recriminazioni e svalutazioni si stava attivando, e più il tempo passava più l’aria faceva fatica ad entrare nei polmoni. I suoi respiri erano corti, a tratti frenetici, e il suo sguardo era costantemente proiettato nel futuro, nel quale la paura di non riuscire ad emergere si stava via via sempre più concretizzando.

Si sentiva paralizzato e ingabbiato, e la sola idea di “accontentarsi” di un lavoro “normale” gli toglieva il fiato.

La paura lo stava congelando su vari livelli, quello lavorativo (non riuscendo a concentrarsi come prima non riusciva ad avviare nuovi progetti), affettivo (la sua ragazza lo percepiva distante e distratto) ed emotivo (aveva smesso di provare emozioni positive).

Spesso, la paura del fallimento lavorativo nasconde ben altre paure. Paure antiche di quando, per ottenere la stima, il rispetto e soprattutto l’amore che ci era dovuto, eravamo costretti ad impegnarci, a sforzarci per raggiungere i risultati che ci avrebbero permesso di essere visti e riconosciuti.

Toccare questo genere di dolore è spesso spaventoso e il nostro corpo fa di tutto per allontanarsene.

Purtroppo, o per fortuna, viverlo è l’unico modo per apprendere che l’unico giudizio che conta, in fondo, è quello che noi abbiamo su noi stessi.

Potreste chiedervi: “Possono essere compresenti tutte e tre le inibizioni?”. La risposta è “certamente”. Alcuni hanno accesso ad un canale emotivo preferenziale mentre altri potrebbero averli bloccati tutti. E’ il caso dell’alessitimia.


In tutti e tre i casi l’unica via per iniziare a stare meglio è imparare ad accogliere le emozioni rinnegate e a reintegrarle all’interno della nostra vita.

Seconda Modalità

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Come già accennato, gli attacchi di panico non sono mossi tutti dagli stessi meccanismi.

Mentre nella prima modalità assistiamo a degli attacchi sporadici e circoscritti alle situazioni attivanti, i seguenti sembrano essere dovuti completamente al caso, e ciò tende a generare ancora più ansia e impotenza.

 

E’ il caso in cui il primo attacco si è manifestato in modo apparentemente casuale e ci ha portato a sperimentare sensazioni talmente spiacevoli in fatto di intensità da venir marchiate a fuoco nella nostra memoria corporea.

Spesso avvengono in situazioni di dormiveglia (prima di addormentarsi o al risveglio), in situazioni di estremo relax, in situazioni di pericolo o dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti.

Due sono i problemi fondamentali: 1) L’evitamento; 2) Resettare il sistema.

L’evitamento

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A seguito del primo episodio si genera la famosa “paura della paura”, anche se in pochi sanno cosa significhi. Per paura della paura si intende sì la paura che un altro attacco di panico si ripresenti, ma soprattutto l’attività del corpo che registra le minime funzioni fisiologiche (sudorazione, respiro affannato, battito cardiaco ecc.) come stimoli potenzialmente pericolosi perché facenti parte dell’esperienza vissuta durante il primo attacco di panico e in quelli successivi. Difficile vivere avendo paura del proprio battito cardiaco, del proprio affanno sperimentato dopo una bella corsa o della sensazione di spossatezza vissuta dopo una lunga giornata lavorativa o di studio.

Il pericolo diventa il nostro stesso corpo che fino a poco tempo fa era il luogo in cui sperimentavamo pace e benessere.

Cosa fare dunque? In questi casi è bene stare attenti perché, a differenza della prima modalità, qui è particolarmente alto il rischio di cronicizzazioni se non si interviene tempestivamente. I comportamenti di evitamento possono portare l’individuo a rinchiudersi sempre di più nelle sue abitudini, impedendogli di sperimentare nuovi spazi di benessere e creatività. L’ansia può diventare sempre più pervasiva e generare un vissuto di soffocamento e smarrimento sempre maggiore e sempre più presente.

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Tra i sintomi associati a questa ultima modalità e che vale la pena citare troviamo la Depersonalizzazione e la Derealizzazione.

Rientrano entrambe nella macrocategoria della dissociazione, un meccanismo fisiologico grazie al quale la mente si stacca dal corpo nel quale vagano senza controllo le emozioni troppo intense. E’ un fenomeno temporaneo che però, se non viene trattato, può diventare quasi onnipresente.

Depresonalizzazione

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Per quanto riguarda la depersonalizzazione, essa viene sperimentata come una sensazione di

forte distaccamento dal proprio corpo, dalla propria mente e dalle proprie percezioni fisiche. Tale sensazione di perdita di controllo sulle proprie facoltà percettive spesso viene descritta come “mi sento un morto che cammina”, “mi sento un automa”, “sento come se non fossi più padrone del mio corpo”, “sento di non avere più il controllo del mio corpo come prima”. Viene riportata insensibilità ma in realtà non tutte le emozioni sono estromesse dal campo percettivo. Spesso, quelle vissute come negative (come tristezza, dolore disperazione, senso di colpa) permangono.

Questa condizione provoca inizialmente paura e sconforto perché la persona non sa cosa gli stia accadendo e la preoccupazione principalmente riferita è “rimarrò così per sempre?”.

Tali preoccupazioni non aiutano il superamento della condizione, ma favoriscono il cronicizzarsi del sintomo.

Nelle prime fasi (dopo aver effettuato le dovute visite mediche), è indispensabile essere informati su tale condizione e sviluppare gli strumenti necessari per riuscire a gestire tutta l’emotività che essa porta con sé.

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Derealizzazione

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Per quanto riguarda la derealizzazione, essa viene descritta come una sensazione di distacco dall’ambiente circostante, come una sensazione di irrealtà, e la persona può sentirsi come immersa in un sogno o in una nebbia perenne, oppure come se un vetro o un velo lo separasse da ciò che lo circonda. Il mondo può apparire senza vita, artificiale o deformato. Gli oggetti possono apparire sottili o insolitamente chiari, oppure piatti o più piccoli di quanto siano nella realtà. I suoni possono sembrare più alti o leggeri del reale, e il passare del tempo troppo lento o troppo veloce.

Anche la derealizzazione può essere fonte di ansia e creare un disagio per molti intollerabile.

Spesso le persone si tormentano credendo di aver subito un danno mentale irreversibile nonostante gli esami medici smentiscano questa ipotesi. Cercano di stabilire se le loro percezioni sono reali fino ad arrivare a chiedersi “ma io esisto?”.

Ciò avviene perché, come scrisse Bessel Van Der Kolk nel suo libro “Il corpo accusa il colpo”, “in termini tecnici queste persone stanno sperimentando la perdita delle funzioni esecutive”. La perdita è temporanea ma, immersi nel vortice, risulta difficile mantenere una rotta se tutte le nostre bussole sono andate perdute. Con queste premesse possiamo comprendere meglio il loro importante vissuto di impotenza e disperazione, e bisogna sottolineare che il rischio che si inneschi una spirale circolare negativa è dietro l’angolo.

Anticipo delle domande...

”E’ possibile che si abbia la compresenza di derealizzazione e depersonalizzazione?” → Certamente

“E’ possibile che questi due sintomi inneschino gli attacchi di panico?” → Certamente

“Possono avere una remissione spontanea?” → Certamente, ma è altrettanto alta la probabilità che diventino cronici e, via via, meno trattabili.

Resettare il sistema

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Il compito più arduo nel trattamento degli attacchi di panico e dei sintomi dissociativi è quello di riabituare il corpo ad un fisiologico stato di attivazione.

Come spiego alle persone che richiedono un consulto o decidono di fare un percorso, la questione non è solo ed esclusivamente psicologica, ma ha anche un importante aspetto biologico che non deve essere sottovalutato. Il focus sull’aspetto biologico è importante perché è il nostro corpo che detta i tempi di recupero una volta avviato il processo di guarigione, ed vanno rispettati. Uno dei più importanti step della terapia è imparare ad ascoltare i nostri limiti momentanei e a rispettarli, senza sforzarsi troppo (la voglia di tornare al 100% è più che comprensibile ma spesso deleteria) e senza lasciarsi andare all’abbattimento. Per tornare come si era è quindi importante imparare a vivere in un modo nuovo.

Il corpo in questi disturbi svolge un ruolo fondamentale perché è tramite esso che il disagio viene espresso e, ancor prima, vissuto.

La fuga da esso è istintiva perché, quando la realtà esterna diventa pesante e necessitiamo di tempo e spazio per riprenderci, ci accorgiamo che il corpo è diventato un campo di battaglia e non più un posto sicuro nel quale rifugiarsi; ma se continuiamo a fuggire dalla nostra stessa casa, il rischio di perdersi non può che diventa una certezza.

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Trovare un modo per affrontare le proprie emozioni, gestire le proprie reazioni e abbassare il livello di attivazione è fondamentale se si vuol uscire completamente dal circolo vizioso degli attacchi di panico e dei sintomi dissociativi, ma ancora più importante è far nostra la seguente frase: "E' nel momento di dolore, che impariamo ad amarci".

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Articolo a cura di: Dott. Lorenzo Priore

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